Linguaggio inclusivo e scrittura inclusiva: che cosa sono e perché se ne parla tanto

Il dibattito sul linguaggio inclusivo e, di riflesso, sulla scrittura inclusiva è ormai sempre più presente: magari il tema è riservato ad alcuni ambienti “di nicchia”, ma si sta espandendo sempre più. Negli ultimi anni si è anche allargato il terreno di gioco e si sono aperti nuovi scenari.

Inclusivo di chi?

Negli ultimi anni però, e ancora una volta su spinta internazionale, si è posto anche il problema di come includere e come rivolgersi a tutte le persone che non rientrano in uno schema binario, ovvero a coloro che non sono o non si sentono né maschi né femmine. La questione è tutt’altro che banale, e le implicazioni sono molte e inaspettate.

Abbiamo iniziato litigando su “sindaca”

In Italia la bolla è scoppiata nel decennio 2010 con il tema delle professioni o degli incarichi istituzionali indicati normalmente dal genere maschile. Parole come “sindaco”, “ministro”, ma anche professioni a prevalenza maschile come “ingegnere”, secondo il linguaggio inclusivo devono essere espresse al femminile se è una donna a ricoprire il ruolo. Infatti oggi, rispetto a pochi anni fa, si sente spesso parlare di “sindaca”, “ministra”, “ingegnera” e via dicendo.

Da un lato questo processo sembra una cosa assai normale. Se esistono la maestra, l’infermiera e la cameriera, perché non devono esistere l’ingegnera, la sindaca e la ministra? La grammatica italiana prevede questa diversa terminazione, dunque non ci stiamo inventando niente: stiamo semplicemente applicando le regole. La lingua è specchio della società, e se oggi le donne – fortunatamente! – possono accedere a determinati ruoli, allora è giusto rendere sensata la concordanza grammaticale.

Eppure, la cosa ha scatenato vere e proprie voci “contro” sostenute dalle più varie motivazioni. Fra queste, il fatto che le nuove parole fossero “brutte”, che il maschile usato in quei casi particolari era da ritenersi “neutro” o che certe professioni si chiamano al maschile e basta “perché è sempre stato così”. (Come non citare a questo proposito Sanremo 2021 e il dibattito scatenato da Beatrice Venezi che rivendicava il diritto di farsi chiamare “direttore d’orchestra” essendo questo da sempre il nome del ruolo).

Ora, il brutto, si sa, è un concetto relativo: “brutto” non significa “sbagliato”, e spesso ci sembra brutto qualcosa a cui non siamo abituati. Per dire, certamente molte persone, a forza di sentirlo, hanno già assorbito l’effetto cacofonico iniziale di “sindaca” e non ne sono più stranite. Il neutro, invece, non è un’opinione: è una regola grammaticale. È un genere che, nell’italiano di oggi, non esiste. I latini lo avevano, il neutro. Ma la lingua si evolve, cambia, e nel passaggio dal latino alle derivazioni romanze il neutro si è perso per strada.

E oggi, se sindaca e ministra sembrano ormai meno brutti e si sentono ovunque: architetta, avvocata e medica sono ancora molto ostici, sarà perché in televisione ne compaiono meno? Per non parlare delle dibattute differenze tra “la poeta” e “la poetessa”, “l'avvocata” e “l'avvocatessa”, "la studente" o la studentessa". Ed ecco che le armi della grammatica si fanno affilate, affilatissime!

Il maschile prevale sul femminile

Dal linguaggio alla scrittura il passo è breve. Nel 2017, i nostri amici francesi hanno messo sul piatto un altro scottante argomento partendo proprio dalla scrittura. La “scrittura inclusiva” è stata infatti al centro di una petizione lanciata in Francia e di un manifesto sottoscritto da più di 300 insegnanti francesi per introdurre nella lingua alcuni accorgimenti volti a rispettare il genere. Fra questi, anche la cosiddetta “regola di prossimità”

(Attenzione, qui si entra nella grammatica spinta!)

La regola di prossimità, un tempo in uso nella lingua francese, vuole l’aggettivo concordare con il genere del sostantivo a lui più vicino. In questo modo, si potrebbe dire “i ghepardi e le pantere sono belle”, così come “le pantere e i ghepardi sono belli”. Questo uso è stato soppiantato nel ‘600 e sostituito dall’attuale regola, in uso anche nell’italiano, e riassunta in una semplice frase mandata a memoria fin da piccoli: “il maschile prevale sempre sul femminile”. In soldoni, non importa quanti siano i nomi femminili elencati: secondo la regola attuale, l’aggettivo è sempre maschile. E quindi: i ghepardi, le pantere, le leonesse e le manguste sono belli.

Sulla questione del maschile che prevale sul femminile si è espressa la giornalista francese Titiou Lecoq in un interessante articolo rilanciato da Il Post. Il fulcro dell’articolo è un’esperienza di vita vissuta dalla stessa Lecoq alle elementari: la sua maestra che spiega la regola del maschile che prevale sul femminile, e i maschi della classe che esultano al grido “Le ragazze hanno perso!”. Boutade da bambini o specchio della realtà? In ogni caso, anche la proposta della regola di prossimità ha scatenato una bufera, dalla “morte della lingua” temuta dall’Académie Française al “delirio femminista” espresso da Le Figaro.

Rimanendo su questioni grammaticali, ma meno spinte, in ambito italiano il linguaggio istituzionale - ma mica tutto - sta prestando più attenzione all’uso di forme inclusive. Come? Per esempio girando le frasi in modo da evitare un maschile che suonerebbe “prevalente”, oppure inserendo femminile e maschile per una stessa parola (come “le cittadine e i cittadini”, e qui io penso sempre all’ormai classico “buonasera telespettatrici e telespettatori” di Lilli Gruber). La lingua italiana è un bel rompicapo, non ha l’immediatezza dell’inglese che rende queste soluzioni spesso più semplici, ma per lo stesso motivo offre una quantità di combinazioni meravigliose, talvolta sottovalutate.

Alcuni mondi, invece, sono ancora lontani dal trovare una quadra tra intenzione e linguaggio: e purtroppo basta gettare un occhio proprio al settore della comunicazione - argh! - e della pubblicità. Se ti chiami Alessia, sei una donna, e hai sottoscritto una newsletter per il brand pincopallo, ti sarà sicuramente capitato di ricevere una irritantissima prima comunicazione di questo tipo: “Benvenuto Alessia!” Insomma, anche no.

Un altro caso recente che mi è saltato agli occhi riguarda lo spot pubblicitario di una nota compagnia assicurativa, rilasciato nel 2021. La storyline è emozionante e ha una protagonista femminile: prima bambina, poi ragazza, poi donna, acquista fiducia nelle sue possibilità attraverso un gioco di sguardi con le persone che incontra sul suo cammino. Peccato che ogni frase che accompagna lo spot sia declinata al maschile, come “Quando hai fiducia in te stesso, puoi andare lontano”. Ora… era molto complicato togliere la parola “stesso”? Il risultato non sarebbe stato visibilmente più inclusivo? Lo stridore tra teoria e pratica, insomma, è ancora molto forte.

La U o lo Schwa e la ricerca di una forma “altra”

Ma come accennato prima, c’è un’altra questione sul piatto che fa suonare il dibattito maschile/femminile quasi vetusto. Si tratta dell’inclusività delle persone non binarie, o comunque delle persone che non vogliono essere associate a un “maschile” o a un “femminile”. Obiettivo un po’ più arduo, dal momento che la lingua italiana, come dicevamo, non prevede il neutro, bensì una netta divisione grammaticale maschio/femmina.

In alcune lingue, trovare la quadra è più facile che in altre. Questa volta anche gli anglosassoni hanno dovuto trovare una soluzione nuova. Rapidi e indolori, hanno aggiunto “they” (ma singolare) per affiancare "she/he" e descrivere tutte le persone che non si sentono né femmine né maschi. In alcune prestigiose redazioni, le persone che fanno le interviste devono chiedere a chi intervistano come preferisce che si descriva. Non proprio come in un programma italiano a cui abbiamo assistito recentemente, di cui non diremo il nome. Dopo aver chiamato insistentemente l’ospite “avvocatessa” (senza per altro notare il gelo sul suo viso), il presentatore le ha chiesto a metà trasmissione come desiderasse essere chiamata. La signora in questione ha detto che “avvocato” o “avvocata” poteva benissimo andare. Il pasticcio successivo di concordanze è stato inevitabile ed esilarante.

Ma tornando al neutro: in Italia, come sempre, il dibattito è ancora ridotto e siamo ancora in fase di capire quale sia la forma migliore. Sembra che i simboli vadano per la maggiore. Al momento siamo transitati dall’uso dell’asterisco e della chiocciola (ciao a tutt* / ciao a tutt@), al tentativo di introdurre la U o il simbolo fonetico ə/з (ciao a tuttu / ciao a tuttз / ciao a tuttə). Questa nuova tendenza è stata salutata in parte con entusiasmo, in parte con ribrezzo.

La fazione entusiasta afferma che la lingua cambia, e bisogna farsene una ragione. Persone esperte di linguistica vicine all’Accademia della Crusca hanno invece sottolineato come la lingua cambi, sì, ma perché le persone cominciano a utilizzare, per abitudine, determinate forme, e non perché queste vengono calate dall’alto (del tipo: “da oggi usiamo tutti la u come lettera neutra”). A questo proposito - ma soprattutto a proposito dello schwa -  la stessa Accademia si è espressa proprio a settembre 2021:  il suo utilizzo nella lingua italiana non ha ragion d'essere. La questione, insomma, non è neanche lontanamente risolta.

Ma i simboli al posto delle lettere sono davvero inclusivi?

La questione del neutro è senz’altro spinosa per una lingua come l’italiano, e a ben vedere anche l’uso dei simboli o delle forme alternative nasconde qualche insidia. La “u”, per esempio, andrebbe usata invariabilmente per il singolare e per il plurale, mentre la scevà non si trova facilmente sulle nostre tastiere. Inoltre, se si collega inevitabilmente la scrittura alla lettura, una domanda sorge spontanea: lo schwa, l’asterisco e la chiocciola, come diamine le pronunciamo?

La cosa non è da sottovalutare. Per venire incontro alle persone non binarie con la soluzione dei simboli, potremmo mettere in seri guai le persone dislessiche. Di base, chi vive questa condizione pensa principalmente per immagini: la scrittura è già in partenza un terreno scivoloso, e l’uso indiscriminato di simboli mischiati alle lettere rischia di complicare ancora di più l’apprendimento e la comprensione di un testo. Ed ecco che le pretese di inclusività vacillano...

Nella primavera 2021, la stessa questione è tornata alla ribalta in Francia con la pubblicazione del primo manuale scolastico redatto secondo una scrittura inclusiva. Significa che hanno messo dappertutto lo schwa? No. In Francia si è diffusa in modo abbastanza istituzionale - diciamo prettamente calato dall’alto - una soluzione che prevede la compresenza di maschile e femminile (senza neutro, tra l’altro) divisi da un puntino. Tradotta in italiano, una frase del suddetto manuale per esempio risulterebbe più o meno così: «Grazie agli agricoltor·e·i e agli artigian·e·i e ai commerciant·e·i la Gallia era un paese ricco».

Una grande complicazione in fase di lettura, soprattutto per chi ha problemi di dislessia o deficit cognitivi - ma anche per chi non li ha, diciamocelo! - tanto da portare a una petizione indirizzata al Ministro dell’Istruzione Blanquer che recita “No alla scrittura inclusiva!”. Nel momento in cui scriviamo ha superato le 53.000 firme. La motivazione è quella citata prima: per includere forzosamente nel linguaggio una fetta di persone, se ne stanno escludendo molte altre che non hanno a che fare strettamente con una questione di genere.

Nel frattempo la lingua cambia comunque

E per concludere, torniamo in Italia. Abbiamo detto che la lingua cambia soprattutto per le abitudini nell’uso. È noto che il linguaggio e la scrittura, fra le altre cose, stanno includendo e accettando delle aberrazioni grammaticali che vanno addirittura a travisare il senso delle frasi. Un esempio su tutti? Il “piuttosto che” usato con funzione disgiuntiva invece che con funzione avversativa. Dire “questa sera possiamo mangiare la pizza piuttosto che il sushi” non significa che stasera possiamo mangiare “pizza oppure sushi”. Significa invece che stasera possiamo mangiare “pizza, e non sushi”, delineando così una scelta precisa già effettuata. Insomma: stasera non mi è indifferente mangiare pizza o sushi, so bene che voglio la pizza invece che il sushi.

Ma anche l’abitudine ormai sempre più consolidata di usare il pronome “gli” anche in riferimento a una donna “Sono andata da mia nonna per fargli gli auguri” invece di “Sono andata da mia nonna per farle gli auguri”. Per non parlare di “pò” invece che “po’”, praticamente dato come scelta principale dal T9 dei cellulari fin dai tempi dei Nokia 3310. Se teniamo il discrimine dell’abitudine, è molto facile che questi errori di significato o grammaticali verranno assorbiti nell’evoluzione della lingua italiana diventando, nel tempo, forme corrette.

La società cambia, e con lei il linguaggio e la scrittura; è inevitabile. Facciamo almeno in modo che cambi in meglio. In un mondo in cui le individualità cominciano a essere considerate tali, e le personalità si affermano e si determinano nella loro unicità, sarà sempre più difficile trovare un linguaggio così inclusivo da includere ciascuno di noi. La cosa importante sarà senza dubbio partire da un atteggiamento inclusivo, nella vita di tutti i giorni, nei pensieri e nelle azioni. Da lì, mano a mano, troveremo un modo per integrarlo sensatamente nel nostro linguaggio.

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mettici alla prova

Alcuni link di approfondimento in ordine sparso

(se il nostro pippone non ti è bastato, o se vuoi salvarli e leggerli in un altro momento)


1. L’articolo pubblicato da Il Post il 12 novembre 2017 dove si parla del pezzo di Titiou Lecoq che abbiamo citato anche noi. Qui si inquadra il dibattito francese sulla lingua inclusiva che imperversava in quel periodo:
In Francia si discute di grammatica e "scrittura inclusiva" - Il Post

2. Alessandra Vescio traccia gli estremi del dibattito attuale sul linguaggio inclusivo in Italia per Valigia Blu. Si parla di schwa, maschile sovraesteso, rapporto del binarismo di genere con la lingua, e spunti dall’estero (che fanno in Germania e in Svezia, per esempio?). L’articolo è del 4 agosto 2020:
Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo – Valigia Blu

3. Sempre per Valigia Blu, Vera Gheno sfata uno per uno i luoghi comuni usati dalle persone che si oppongono strenuamente all’uso del femminile per le professioni storicamente declinate al maschile. L’articolo è del 10 dicembre 2020:
La questione dei nomi delle professioni al femminile una volta per tutte – Valigia Blu

4. Nel suo blog Il Mestiere di Scrivere, Luisa Carrada traccia una breve e simpatica fenomenologia del fastidio che possono provare le donne quando vengono appellate come se fossero uomini. Come la famosa newsletter “Benvenuto Alessia!”. In calce, c’è anche qualche suggerimento per dire frasi comuni, normalmente declinate al maschile, in modo neutro. L’articolo è del 10 febbraio 2020:
Ma io sono una signora! (mestierediscrivere.com)


5. Questa, invece, è una pratica guida di stile redatta dall’Università de L’Aquila. Si intitola “Per un uso della lingua italiana rispettoso dei generi”. Il capitolo che va da pagina 20 a pagina 35 è un pratico breviario su come declinare il genere nel modo giusto (per esempio: sarebbe più corretto dire “la studentessa” o “la studente”? Leggere per scoprire!):

blob.php (univaq.it)


6. E per finire, l’ultima parola dell’Accademia della Crusca per quanto riguarda l’uso dello schwa. Noi abbiamo citato il responso finale; qui tutte le argomentazioni che la prestigiosa istituzione ha usato a corredo. L’articolo è del 24 settembre 2021, a firma Paolo D’Achille:

Un asterisco sul genere - Consulenza Linguistica - Accademia della Crusca

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Chiara Zucchellini

Copy e Project Manager - Scrivo sempre e dovunque. Ogni tanto disegno. Mai pentita di aver studiato Storia dell’Arte, nel tempo che rimane mi occupo di promozione turistica.

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