Alle elementari avevo una maestra tosta. Una suora sui 70 anni, per l’esattezza, quindi ci siamo capiti. Un giorno ci fece aprire il quaderno e ci dettò una lista di parole di comune utilizzo nella lingua italiana. Solo che erano parole straniere. Per ciascuna, ci fece scrivere accanto il paese di provenienza e il corrispettivo – qualora esistente – in italiano.
Erano gli anni ’90 e forse non esistevano ancora situazioni limite come “organizziamo un meeting sul food e sul wellness in una bella location con light lunch per i nostri partner”. Tuttavia, lo scopo dell’esercizio era rendersi conto della contaminazione linguistica come di un fatto normale e inevitabile, dovuto ai contatti con altre culture. E prenderne coscienza.
Oggi pensiamo soprattutto all’inglese. Chi mi conosce sa che ho una certa diffidenza verso l’uso smodato e poco sensato degli anglicismi, spesso se usati per “fare figo” (essere cool!) o per dimostrare di “saperne a pacchi” (avere know-how!). Sull’argomento, negli ultimi anni, si sono sparsi fiumi di inchiostro, basti pensare alle considerazioni di Annamaria Testa o all’analisi circa il concetto di “anglicismo” fatta da Treccani. Qualcuno ricorderà anche la campagna “Dillo in italiano” del 2015, rilanciata da Internazionale, per sensibilizzare noi italiani a usare meglio e di più la nostra (bellissima) lingua.
In tempi ancora più recenti, anche Mario Draghi si è espresso in proposito, quasi a sorpresa: è successo nel marzo 2021, durante una conferenza stampa da Presidente del Consiglio presso il centro vaccinale anti-COVID di Fiumicino. Leggendo uno stralcio di un suo testo che nel giro di poche righe parlava di "smart working" e "baby-sitting", Draghi si è chiesto ad alta voce: "Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?" Eh beh... la risposta alla domanda, in ogni modo, non è semplice, e citando lo stesso episodio la sociolinguista Vera Gheno ha provato a spiegarci il perché.
Forse anche una volta, da bambini, pensavamo soprattutto all’inglese: d’altronde computer, videogames e floppy disk esistevano già. La sorpresa fu, appunto, che l’inglese è solo il fenomeno più vistoso. Ricordo ancora che la parola a colpirmi di più fu “robot”. Prima di tutto perché la credevo francese (la pronunciamo “robò”, sbagliando). Secondo, perché scoprii proprio quel giorno che si trattava una parola russa. La pronuncia corretta? “Ròbot”. Una rivelazione. Suggestioni sovietiche post muro di Berlino. Odori e immagini di un paese lontanissimo e gigantesco… “Automa” non dava certo la stessa soddisfazione all’udito!
Insomma, la morale è che utilizzare parole straniere nella lingua italiana non è un male, basta “aver dell’usta”, come si dice dalle mie parti. Che tradotto in italiano significa avere misura, accortezza e buon senso come in tutte le cose. E soprattutto, bisogna conoscere le parole che si stanno usando, come la lista della mia vecchia suora voleva dimostrarci e insegnarci.
Per concludere, non si può non citare questa chicca di pochi minuti. Dicevamo che l’inglese è solo una parte della questione, giusto? Avete mai pensato a quante parole francesi utilizziamo normalmente in italiano? Il videomaker Simone Rovellini sì e ne ha fatto un video molto carino intitolato “C’est la vie!”. Dopo averlo visto, anche i più puristi della lingua italiana si troveranno a esclamare senza dubbio “Chapeau!”.